Accattatevi u vibbrione

22 Giu

2020

Accattatevi ‘u vibbrione!

Il nuovo racconto di Giuseppe Resta

Quell’agosto del 1973 era alla fine. Il problema del Colera venne fuori all’ improvviso, da telegiornali letti da signori occhialuti e ben pettinati in abiti grigi, camicie bianche e cravatte scure. Le prime pagine dei pochi giornali, dopo una prima fase di sottovalutazione - La Gazzetta Del Mezzogiorno titolò: “È colera, ma non c'è da perdere la testa” - erano allarmanti. Quelli del Nord colpevolizzanti.

Si dava addosso ai napoletani e a tutto il meridione. Isole comprese. Noi mangiatori di cozze crude - poi si scoprì che non era veramente là il problema - eravamo dipinti da mangiarne come barbari brutti, sporchi e cattivi. Ma abbiamo visto quello accaduto con la fesseria dei topi crudi mangiati dai cinesi… Certi fessi non scompaiono con le epidemie. Ritornano. Si reincarnano. In tutto furono diagnosticati meno di 300 casi di colera. Ma l’allarme portò a un sacco di ricoveri. Solo al Cutugno di Napoli furono quasi mille i ricoveri per sintomi viscerali. Probabilmente molti erano psicosomatici! Ma ci furono anche 24 morti. E i limoni, considerati un toccasana, si vendevano a prezzi da strozzo, al mercato nero. Intanto si affrontò una campagna di vaccinazione totale. La più grande opera di profilassi del secondo dopoguerra con milioni di italiani vaccinati. E che richiedevano a gran voce il vaccino, altroché!

Per me era l’estate prima dell’inizio del terzo scientifico. Le scuole furono chiuse. E invece del fatidico primo di ottobre si aprirono il 5 novembre. Nonostante tutto gli irriducibili sbruffoni ancora mangiavano cozze e verdura cruda. La fessagginità italiota ha radici antiche, non è solo colpa dei social se viene fuori. «Accattatevi ‘u vibbrione!» gridavano i pescivendoli. E c’era chi se lo comprava davvero. In questa situazione strana tutti noi giovanissimi eravamo a zonzo, spersi. Il mare era guardato con diffidenza. Niente bagni. Si andava in bici, in motoretta, si evitava di frequentare i bar. Si leggeva, altro non c’era. Si evitava anche di giocare a pallone per evitare contagi negli spogliatoi, se poi gli spogliatoi ci fossero stati. «Comincia a fare qualcosa… A ripetere il latino! Ripassa la matematica.» Era il mantra dei genitori. Sì, certo, come no? Mio padre era medico condotto. Cominciava a impazzire tra chiamate, visite, programmazioni. E poi cominciavano i vaccini. File lunghissime e ordinate di persone col braccio di fuori da pungere e disinfettare. Così un giorno mi coattò: «Non stai facendo niente, il momento è drammatico, dai una mano pure tu, e se hai amici che vogliono impegnarsi diglielo: serve gente per prendere i nomi di chi fa il vaccino.»

Non mi sembrò vero. Dare una mano e rompere quella cappa di noia. Presi servizio volontario subito. E mi portai anche qualche amico appresso. In una palestra di un nuovo complesso scolastico due file di cittadini, disciplinate da due vigili urbani in uniforme. Alla fine di ogni fila un medico con un infermiere o facente funzione (di fatto una era una donna delle pulizie). Prima di passare alla puntura le persone passavano dal mio banco dove su un quadernone registravo nome, cognome, indirizzo e data di nascita. Poi passavano a farsi disinfettare, poi la piccola puntura e il tampone di ovatta con l’alcool. Una vera catena di vaccinazione efficiente e rapida. Due, tre ore così ogni giorno. Migliaia di cittadini vaccinati. Poi il pomeriggio mio padre organizzava la vaccinazione per gruppi familiari. Contattava i capofamiglia delle famiglie più numerose e faceva riunire tutti i parenti. Così faceva tre o quattro numerosi gruppi di persone anche nel pomeriggio, a domicilio. Che non andavano a bloccare gli altri. Andando anche in campagna, nelle masserie, dove ancora la gente abitava perché era ancora tempo di villeggiatura. E soprattutto dove c'erano vecchietti e inabili. Come nel film Benvenuti al Sud, era poi difficile resistere a dolcetti, pasticcini e bicchierini forzatamente offerti, che poi a non accettarli, pareva brutto.

Per avere i vaccini andammo con papà, chiaramente a sue spese, fino a Brindisi. Era difficile l’approvvigionamento e la gente voleva vaccinarsi. Un amico che lavorava al Comune si interessò per farli avere a Galatone tramite un parente che era in Marina al porto di Brindisi. Il meridionale sa sempre come cavarsela tramite il familismo, in questo caso usato bene. Per la metà di ottobre l’allarme era rientrato. Ci fu un dopo colera. Nel mio paese, così, si chiusero bar senza i minimi requisiti di igiene. Altri se ne dotarono in fretta e furia. Almeno una dozzine di bettole e mescite di vino furono chiuse nel centro storico. Erano veramente improbabili come locali per la vendita di alimenti e bevande. Spesso non avevano non solo i bagni – lì nei pressi c’era una latrina pubblica – ma manco l’acqua corrente. Cambiò qualche abitudine. Tipo quella di andare nella piazzetta del centro a rimediare l’ingaggio lavorativo e, nel frattempo, rinfrancarsi con bicchieri di vinaccio, fino a stordirsi. Nelle marine sparirono alcune antiche stabulazioni: le acque dei pozzi neri a perdere dell’edilizia selvaggia di quegli anni, tramite le sorgenti, ingrassavano i mitili con i colifecali. Intanto molti sindaci cominciarono a chiedere i soldi per gli impianti fognari, inesistenti.

Riuscimmo a sopravvivere, e tornammo ad essere più felici e molto più puliti. Il primo giorno di scuola del terzo liceo, con tutti i professori che nel triennio cambiano, ci accolse il nuovo professore di latino e italiano. Ci fece un bel discorso da primo giorno, chiedendoci un impegno maggiore, perché nel triennio era tutto più impegnativo e per recuperare il ritardo. Un mio compagno, forse distratto, forse solo immaturo o poco furbo, a fine discorso osò chiedere quando quell’anno scolastico sarebbe finito. Il professore si incazzò come un toro infuriato: «Già stai iniziando con più di un mese di ritardo e già pensi solo a quando finirai?» Apriti cielo e spalancati terra.

Il mio amico, è inutile dirlo, fu rimandato, quell’anno, in italiano e latino. Colera o non colera la prima impressione è quella che conta. È umano. Anche i professori sono condizionabili. E anche lui, il mio amico, possiamo affermalo, fu una vittima asintomatica del colera.

Infondere e raccontare le sensazioni della vita

“I libri di Icaro”

Città Futura srl - P.IVA 04391610757 - Copyrights © 2023 - Tutti i diritti sono riservati

Realizzazione: GRAPHOPRINT • Ultima modifica: 23 Giugno, 2020